mercoledì 28 luglio 2010

Chiusura non chirurgica (per via percutanea) del forame ovale pervio (PFO) mediante "AMPLATZER PFO Occluder" - da www.panvascular.com





Cosa accade prima, durante e dopo la procedura
La procedura si svolge nel laboratorio di Emodinamica, dove opera personale altamente specializzato ed addestrato. Il paziente, posto sul lettino di cateterismo, viene attentamente seguito e valutato attimo per attimo in tutte quelle che sono le funzioni vitali (polso, pressione, ritmo cardiaco) e vengono approntate tutte le misure farmacologiche e non farmacologiche atte a contrastare eventuali urgenze. Il paziente dovrà avere in precedenza effettuato un bagno o una doccia ed essere stato sottoposto alla rasatura dei peli nella zona attraverso la quale verrà introdotto il catetere.
Dopo aver effettuato l'anestesia locale nel punto di accesso cutaneo, il cardiologo interventista (che chiameremo "operatore") introduce in una vena (quasi sempre quella femorale a livello dell'inguine) un tubicino (introduttore) di calibro adeguato a contenere il catetere che servirà per attraversare il PFO.



Un secondo medico ecocardiografista potrebbe eseguire un ecocardiogramma transesofageo (ETE) durante la procedura di chiusura del PFO. Questo tecnica di immagine agevola il medico operatore nel posizionamento corretto dell'ombrellino a livello del PFO prima del suo rilascio definitivo.
Il cardiologo interventista (l'operatore) può eseguire la misura della saturazione di ossigeno in alcune cavità cardiache (cateterismo destro).
L'ombrellino ("AMPLATZER PFO Occluder") di dimensioni adeguate al PFO da chiudere (il più usato è quello da 25 mm di diametro) viene avvitato su uno speciale catetere, viene poi inserito in un lungo introduttore e fatto avanzare (sempre chiuso nel catetere) attraverso il PFO.


L'operatore spinge l'ombrellino fuori dall'introduttore in modo tale che i suoi due dischi aperti si aprano su ciascun lato del forame ovale pervio (PFO), cioè uno in atrio sinistro e l'altro in atrio destro.
Quando l'operatore, sulla base dei dati angiografici, delle manovre eseguite per il controllo della stabilità del sistema, dell'esecuzione di un'angiografia e/o di uno studio ecocontrastografico, e delle immagini ecocardiografiche ('ETE), è soddisfatto della posizione del sistema di chiusura, esegue il suo rilascio definitivo svitando l'ombrellino dal catetere su cui era stato montato e che era stato usato per spingerlo in atrio sinistro. Il sistema " AMPLATZER PFO Occluder" è ora definitivamente impiantato nel cuore.

Il catetere, l'introduttore venoso e la sonda transesofagea (nel caso venga usata) vengono rimossi e la procedura è terminata.

La procedura dura generalmente 1-2 ore, ed è sicuramente molto meno invasiva di un intervento chirurgico a torace aperto. Il paziente viene generalmente dimesso il mattino successivo ma potrebbe anche essere dimesso la sera stessa dell'intervento se questo viene eseguito al mattino.
Cosa aspettarsi dopo la procedura
Se non ci sono complicazioni, la dimissione avviene il mattino successivo oppure la sera stessa dell'intervento se questo viene eseguito al mattino. Prima di lasciare l'ospedale viene eseguito un ecocardiogramma transtoracico (ETT) per verificare il persistente corretto posizionamento del sistema di chiusura.

Dal momento che la procedura di chiusura per via percutanea del PFO è meno invasiva di quella chirurgica a torace aperto, anche il recupero (periodo di convalescenza) è molto più facile. Il paziente viene dimesso con un cerotto adesivo a livello dell'inguine dove era stato introdotto il catetere. Qualche volta rimane un lieve fastidio in gola come conseguenza dell'eco transesofageo (ETE) nel caso questo venga eseguito.

Prima della dimissione vengono dati dei consigli sul tipo di attività che può essere svolta e sul farmaci da assumere (viene solitamente consigliata un terapia antiaggregante piastrinica (per sciogliere il sangue) associando aspirina (da 100 a 300 mg al giorno) e clopidogrel (Plavix o Iscover 1 cp da 75 mg al giorno) per almeno 6 mesi. Informare subito il medico se i farmaci consigliati determinano degli effetti indesiderati, ma non sospenderli assolutamente di propria iniziativa prima di aver avvertito il cardiologo, il quale potrà suggerire quale altro farmaco può essere assunto in alternativa.

Oltre alla terapia antiaggregante piastrinica è necessario assumere degli antibiotici prima di sottoporsi a particolari interventi (vedi prevenzione dell'endocardite batterica). La decisione di proseguire la terapia antiaggregante piastrinica oltre i 6 mesi è a discrezione del medico/cardiologo curante.

E' importante ritornare alle visite programmate di controllo per l'esecuzione di degli ecocardiogrammi di controllo, che vengono normalmente prescritti nel primo anno dopo l'impianto.

Acido folico - Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

L'acido folico (o acido pteroilglutammico o vitamina M o vitamina B9 o folacina, formula molecolare C19H19N7O6) venne scoperto nel 1939 dopo una serie di studi relativi alla terapia di una forma di anemia provocata artificialmente nei polli. Tale sostanza, isolata dal fegato e da vegetali, venne successivamente caratterizzata chimicamente e se ne notò la sua essenzialità in terreni di cultura per alcuni microorganismi. Tra il 1943 ed il 1945, dalle cellule vennero isolati altri fattori riconosciuti, poi, come derivati dell'acido folico. Il suo nome deriva dal latino folium: foglia.

A conferma della relazione lineare tra i livelli circolanti di omocisteina e lo stato dei folati circolanti lo studio di Motulsky del 1996 (antecedente alla fortificazione obbligatoria delle farine con acido folico negli USA che è del 1998) [35] indica che la fortificazione potrebbe prevenire di circa 50.000 morti/annue per cause cardiovascolare. Infatti, è noto come l’incremento anche modesto dell’omocisteina plastica sia causa di effetti patologici sull’endotelio.

Le cause di questa alta incidenza di eventi patologici determinati dall’aumento dei livelli di omocisteina plasmatica sono molteplici, essi sono:

1.Aterosclerosi
l’omocisteina si lega ai radicali liberi metallici, provocando un danno ossidativo sulle LDL,
formazione di foarm cell (cellule schiumose), per la perdita della capacità epatica di captare le LDL circolanti causata dall’aumentato uptake dei macrofagi dei recettori per le LDL
1.Ipertensione
per la perdita di vaso dilatazione con conseguente ipertensione, ciò è dovuto al legame dell’omocisteina con metaboliti radicalici che bloccano i fattori di rilassamento NO mediati.
1.Procoagulazione
può attivare fattori procoagulanti
può inattivare i fattori anticoagulanti
può determinare un danneggiamento dell’endoteli vascolari
fa aumentare la crescita della muscolatura liscia
fa aumentare l’aggregazione piastrinica per effetto sulla ciclossigenasi
1.Danno al tessuto connettivo
danno alla elastina e al collagene per la formazione di legami crociati dovuto all’inibizione della lisil-ossidasi (si formano legami con lo ione di Rame dell’enzima con l’omocisteina).
eccesso di solfatazione dei proteoglicani con i fibroblasti che aumanta il legame con le lipoproteine
1.Neurotossicità
ATP deplezzione PPAR mediata, con malfunzionamento dei meccanismi riparativi del DNA mutilato correlati,
alterazione dei meccanismi omeostatici del neurone per divergenza di diversi metabolismi cellulari
1.Embriotossicità
per alterazione del ratio della sAdenilMetionine/sAdenosilOmocisteina, che determina un’alterazione della DNAmetilazione essenziale per la corretta espresione dei geni.

Iperomocisteinemia - Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

L'iperomocisteinemia è una concentrazione nel sangue elevata dell' omocisteina, un amminoacido derivato dalla cisteina, e che svolge il ruolo di metabolita intermedio nella trasformazione di quest'ultima in metionina e viceversa.

Cause
L'iperomocisteinemia è un sintomo di alcune patologie, ereditarie e non, e di stili di vita errati[1]:

omocistinuria (malattia metabolica dovuta a deficit dell'enzima cistationina-β-sintetasi).
carenza di folati, vitamina B12 o vitamina B6 [2]
tabagismo
eccessivo consumo di caffè e di bevande alcoliche
ridotta attività fisica
esposizione cronica all'inquinamento atmosferico, specialmente al particolato
La mutazione MTHFR (metilentetraidrofolato-reduttasi) che ostacola il processo di trasformazione e causa un aumento di omocisteina. Si tratta di una mutazione piuttosto frequente (frequenza allelica intorno allo 0.5 nella popolazione italiana) [3] e interessa il gene C677T.
Varie malattie possono a volte dare iperomocisteinemia, in particolare ipotiroidismo, psoriasi, lupus eritematoso sistemico, artrite reumatoide. Anche durante trattamenti farmacologici con metotrexate, carbamazepina, fenitoina ed isoniazide inibitori delle COX-2 è possibile l'aumento di livelli ematici di omocisteina.

Rischi
L'iperomocisteinemia è stata inserita dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) tra i fattori di rischio cardiovascolari, cerebrovascolari e vascolari periferici[4].

[5]

Valori elevati di omocisteina nel sangue sono accusati di volta in volta di portare ad un aumento del rischio di:

coronaropatia (che può portare tra l'altro a infarto cardiaco ed angina pectoris)
ictus ischemico [6],
tromboembolia
demenza senile
ritardo o diminuzione dell'intelligenza nei bambini in età scolare
malformazioni fetali (spina bifida)
Alcuni studi la associano anche ad osteoporosi, diabete [7] e a numerosi problemi correlati alla gravidanza [8], dall'aumento della sindrome di Down all'aumento dei casi di aborto spontaneo. In quest'ambito si concentrano tuttavia forti contestazioni e vari risultati contradditori [9]

Per i rischi legati alla malattia coronarica, tromboembolia e ictus sono stati presentati vari studi che ai più paiono del tutto convincenti, tuttavia non mancano anche qui(come del resto per molti fattori di rischio legati all'aterosclerosi e alle malattie ischemiche) perplessità e contestazioni. Queste riguardano sia la pericolosità dell'aumento dell'omocisteina in sé, quanto l'efficacia del suo abbassamento mediante la comune terapia: ad esempio, uno studio [10] mostrerebbe che la terapia e l'abbassamento dell'omocisteina non porterebbe comunque ad una diminuzione del rischio di tromboembolia sintomatica profonda.


Parametri di riferimento
Normalità[1]
valori < 13 micromoli/litro (uomini)
valori < 10.1 micromoli/litro (donne)
valori < 11.3 micromoli/litro (fino a 14 anni)
In caso di omocistinuria da MTHRF i valori ematici sono più alti dalle 10 alle 50 volte, mentre le altre cause e patologie danno aumenti solitamente più contenuti.


Terapia
I livelli di omocisteina vengono ridotti principalmente mediante l'assunzione di acido folico. Quasi sempre a questa prescrizione si aggiungono vitamine del gruppo B (B6, B12), che sono comunque di minore impatto terapeutico. Per le forme di minore importanza (o border) si può tentare una cura semplicemente con una dieta molto ricca di verdura.

L'acido folico è contenuto in questi alimenti, ma è una sostanza piuttosto deperibile, infatti, si degrada facilmente con la cottura, alla luce, alla presenza di alcuni conservanti, al congelamento, ecc; quindi si consiglia il consumo di verdura fresca e conservata lontana dalla luce, non congelata, ecc.

Omocisteina - Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

L'omocisteina è un amminoacido solforato di peso molecolare 135,186 che si forma in seguito a perdita di un gruppo metilico da parte della metionina, un aminoacido essenziale ossia da introdurre con la dieta.

L'aumento dell' omocisteina nel sangue viene oggi considerata un fattore di rischio cardiovascolare.[1] Per le cause, i rischi e la terapia dell'aumento dell'omocisteina nel sangue si veda la voce iperomocisteinemia.

Riassunto

Ho cercato di riassumere il percorso che, dal verificarsi dell'evento ischemico (effetto), ha consentito di risalire alla probabile (anche se mai sicura al 100%) causa.
La mia storia, fino ad ora, è stata la seguente:
-Il 15/06/2010 alle ore 14:30 circa, sono stato colpito dall'ischemia, il cui unico sintomo era la perdita della vista della metà dell'occhio destro (successivamente il neurologo mi ha fatto notare che la stessa cosa era accaduta all'occhio sinistro), alle ore 19:00 circa, causa noncuranza dei sintomi, sono arrivato in pronto soccorso.
-Alla visita oculistica è seguita la TAC da cui non risultava emorragia.
-Dopo qualche ora sono sato visitato dal neurologo che, dopo avermi somministrato aspirina per via endovenosa, mi ha dimesso con la diagnosi di "disturbo su base emicranica".
-Circa una settimana dopo, dietro richiesta del neurologo, ho fatto una risonanza magnetica all'encefalo con sequenza angiografica, da cui, dopo una settimana di attesa per avere il referto, è risultata una piccola ischemia.
-Una volta avere riscontrato l'accaduto, il neurologo, mi ha ordinato i seguenti acertamenti:
analisi del sangue volte a verificare mutazione del fattore II e del fattore V della coaugulazione, PT, PTT, Proteina C, Proteina S, Test di Coombs, Emocromo, Anticorpi anti Cardiolipina, Anticorpi Igm, Anticorpi IgG.
Ecocardiogramma M-2D Color Doppler.
Da tutto questo è risultato che: dagli esami del sangue avevo il valore dell'omocisteina lievemente alto (17,58 mentre il limite massimo è 15,00);
Dall'Ecocardiogramma M-2D Color Doppler è risultata pervietà del setto interatriale documentata in seguito ad infusione di soluzione salina; consigliato Ecocardiogramma Transesofageo da cui è stato riscontrato Forame Ovale Pervio con importante passagio di microbolle in Atrio sinistro.

Una volta raccolte tutte le analisi ed essermi recato dal neurologo, le conclusioni, fino ad ora, sono le seguenti:
-Omocisteina alta: secondo loro (Neurologo e Biologa) valore superiore alla norma ma non preoccupante, si dovrebbe toranre alla normalità effettuando un (per ora) ciclo di sei mesi di Acido Folico (una semplice vitamina assunta per via orale), poi bisogna ricontrollare se il valore dell'Omocisteina è tornato normale (puntualizzo che la biologa mi ha spiegato che questo squilibrio potrebbe essere determinato da stress).
-Forame Ovale Pervio: chiusura per via percutanea da effettuarsi presso l'Ospedale San Camillo di Roma.

Forame Ovale Pervio (PFO) - da www.panvascular.com



Cos'è il Forame Ovale Pervio (PFO)?
Il Forame Ovale Pervio, altrimenti abbreviato con l'acronimo PFO, definisce un'anomalia cardiaca in cui l'atrio destro comunica con il sinistro a livello della fossa ovale tra septum primum e il septum secundum. Statisticamente interessa all'incirca il 25-30% della popolazione adulta.

Il forame ovale
In realtà la comunicazione tra i due atri è assolutamente normale e anzi essenziale durante la vita fetale, prima della nascita.

Durante la vita fetale (vedi figura sopra) i polmoni sono inattivi e l'ossigeno che va ai tessuti proviene dalla madre tramite la placenta e i vasi del cordone ombelicale. Dovendo oltrepassare i polmoni, il sangue fluisce direttamente dalla porzione destra del cuore nella parte sinistra tramite due aperture il dotto di Botallo posto tra l'arteria polmonare e l'aorta toracica e il forame ovale che connette i due atri. Alla nascita, la circolazione placentare viene interrotta, i polmoni iniziano la loro attività respiratoria e il piccolo circolo (cioè quello polmonare) diventa pienamente funzionante. Le modificazioni delle resistenze vascolari fanno si che la pressione atriale sinistra diventa leggermente superiore a quella destra. Questa differenza di pressione fa accollare al forame ovale una piccola membrana chiamata septum primum. Normalmente, entro il primo anno di vita, la membrana si salda alla parete e la chiusura diviene permanente.


Quando si parla di PFO?
Il forame ovale viene definito pervio (aperto), quando questa saldatura non avviene e la chiusura anatomica risulta imperfetta o manca completamente e quindi il septum primum viene mantenuto in sede soltanto dalla differenza pressoria. È come se avessimo una porta semplicemente accostata e non chiusa con la serratura, che si può aprire in un senso o nell'altro a seconda della pressione esercitata ai due lati. Nelle nornali condizioni di vita, il PFO non comporta nessun problema. Se invece la pressione nell'atrio destra supera quella dell'atrio sinistro, ci può essere un passaggio (shunt) di sangue nell'atrio sinistro. Il volume di sangue che viene deviato dipende, oltre che al gradiente pressorio, anche dalle dimensioni dell'apertura e ambedue variano di volta in volta.
Un forame ovale pervio (PFO) è stato riscontrato a livello autoptico (cioè all'autopsia sul cadavere) nel 25-35% della popolazione adulta senza differenza di sesso 1. Utilizzando l'ecocontrastografia, un PFO si può rilevare nel soggetto vivente ("in vivo") nel 5-20% della popolazione adulta 2, 3. Queste percentuali sono diverse perchè all'autopsia si vede direttamente la parte anatomica (coiè il setto interatriale), mentre l'ecocardiografia con ecocontrasto si basa sulla misura indiretta di un fenomeno fisiologico.

Quali sono le persone che dovrebbero essere interessate al PFO?

Pazienti giovani (di età inferiore ai 60 anni), colpiti da uno o più episodi di ischemia cerebrale la cui causa non sia stata determinata ("criptogenetica") e si sospetti una embolia cerebrale "paradossa"7. La causa di un episodio di ischemia cerebrale rimane sconosciuta ("criptogenetica") nel 35-40% dei casi 6.
I subacquei colpiti da forme gravi di malattia da decompressione dopo immersioni eseguite nel rispetto delle tabelle.
Quando va fatto l'esame specifico per il PFO?
Il PFO non provoca alcuna anomalia all'esame fisico e radiologico nè all'elettrocardiogramma. Raramente da manifestazioni patologiche, per cui molti non sanno assolutamente di averlo. Esistono vari metodi di indagine che accoppiano tecniche contrastografiche all'uso di ultrasuoni e che consentono di valutare lo stato delle strutture cardiache e del flusso di sangue, sia normale che patologico (ecocontrastografia bidimensionale ad alta definizione, ecocardiografia color doppler). In pratica, viene iniettata in vena una soluzione salina contenente microbolle che, una volta giunte al cuore, permettono di rilevare il tipo e l'entità di un eventuale shunt. Il metodo Doppler visualizza molto bene le bolle gassose e la direzione del flusso circolatorio, che apparirà in blu quando è in allontanamento dalla sonda e in rosso quando si sposta in direzione opposta. L'uso della soluzione salina con microbolle non ha evidenziato nessuna conseguenza particolare e la metodica è considerata pressochè sicura. La sensibilità diagnostica aumenta se questo esame viene associato alla manovra di Valsalva. Se è presente un PFO, l'ecocardiografia con ecocontrasto metterà in evidenza il passaggio dall'atrio destro a quello sinistro di microbolle nella fase transitoria di aumento della pressione in atrio destro. La dimostrazione di un PFO mediante ecocontrastografia è strettamente correlata con i risultati del cateterismo cardiaco. Quando usata in associazone alla manovra di Valsalva, l'ecocontrastografia ha rilevato il 60% dei PFO che sono stati rilevati al cateterismo cardiaco, e quando usata in associazione al test del colpo di tosse è stato rilevato nel 78% dei casi 4, 5. Una tecnica di più recente introduzione è l'ecocardiografia transesofagea color doppler, che si esegue introducendo una sonda in esofago previa una blanda sedazione del paziente. La più stretta vicinanza tra il trasduttore e il cuore porta a migliori risultati con una sensibilità diagnostica del PFO del 100%.

I pazienti con episodi di ischemia cerebrale da sospetta "embolia paradossa"
L'embola paradossa viene ritenuta responsabile di un episodio di ischemia cerebrale quando:

non è presente una fonte trombo-emboligena nelle sezioni cardiache di sinistra,
vi è la possibilità di uno shunt (passaggio di sangue) tra le sezioni destre e sinistre del cuore, e
viene rilevato un trombo nel sistema venoso o nell'atrio destro 9.
Dal momento che il rilievo di un trombo all'interno del PFO è di raro riscontro1 , 10 la diagnosi di embolia paradossa è di solito presuntiva. Le condizioni che in presenza di un PFO determinano un'embolia paradossa si ritiene siano le seguenti:

un aumento cronico della pressione nell'atrio destro con conseguente shunt destro-sinistro (ad esempio ipertensione polmonare, BPCO, embolia polmonare) 11,
un aumento transitorio della pressione atriale destra che si verifica al termine di un aumento della pressione dell'aria nei polmoni (manovra di Valsalva, tosse, immersioni12) e
differenze cicliche della pressione tra i due atri con transitori shunt tra l'atrio destro e il sinistro.

Mentre non c'è attualmente alcuna prova sicura di un rapporto causa-effetto, numerosi studi hanno comunque confermato una forte associazione tra la presenza di un PFO e il rischio di embolia paradossa o di episodi di ischemia cerebrale13, 14. Quando confrontati con un gruppo di soggetti di controllo senza PFO, i pazienti con PFO hanno un rischio di soffrire di un evento trombo-embolico che è quattro volte più alto; tale rischio è 33 volte maggiore nei pazienti che hanno sia il PFO che un aneurisma del setto interatriale 15. Inoltre, la presenza di un forame ovale ampiamente pervio (con separazione tra septum primum e septum secundum >5mm) o con ampio shunt destro-sinistro (più del 50% dell'atrio sinistro riempito da ecocontrasto) sono state identificati come predittori ecocardiografici di un aumentato rischio di embolia paradossa16. Infine, ci sono sempre più dati che evidenziano come i pazienti con PFO ed embolia paradossa hanno un rischio aumentato di future recidive di ischemia cerebrale.

Uno studio retrospettivo, multicentrico eseguito in Francia ha dimostrato che il rischio annuo di avere una recidiva di ischemia cerebrale transitoria (TIA) è dell'1.2%, e del 3.4% di avere una recidiva di ictus cerebrale o di TIA; le stesse percentuali di recidiva di eventi ischemici cerebrali si verificano anche nei pazienti con PFO e pregressi episodi di ischemia cerebrale "criptogenetica" che assumono una terapia medica profilattica con farmaci anticoagulanti o antiaggreganti piastrinici 17. I dati di questo studio francese sono confermati da quelli di uno studio svizzero condotto a Losanna, in cui la recidiva di ictus ischemico cerebrale in 140 pazienti con PFO e pregresso ictus è stata dell'1.9% all'anno, mentre la percentuale combinata di ictus e TIA è stata del 3.8% all'anno18 , 19.

I subacquei colpiti da forme gravi di malattia da decompressione dopo immersioni eseguite nel rispetto delle tabelle
Le bolle gassose originate dopo ogni immersione subacque si formano all'interno delle vene e non nel sangue arterioso. Quest'ultimo presenta una pressione più elevata, non è quasi mai sovrasaturo e non riceve gas direttamente dai tessuti. Le bolle formatesi sono piccole e non provocano sintomi poichè si arrestano a livello dei capillari polmonari e vengono gradatamente espulse con la respirazione (microbolle). In definitiva rimangono confinate alla circolazione venosa, la quale non ha nessuna funzione nutrizia ma costituisce una sorta di via di scarico per le sostanze che vanno eliminate dall'organismo. Un PFO consentirebbe a queste bolle altrimenti asintomatiche di entrare nel circolo arterioso, dato che la separazione tra i due atri non è ermetica. Inoltre, questo passaggio potrebbe associarsi a turbolenze e creare nuovi nuclei gassosi. Il filtro polmonare perderebbe così l'importante funzione di blocco ed eliminazione dei gas in eccesso residuati dall'immersione. Queste bolle farebbero come un ospite indesiderato che entra nella porta di servizio, evitando di essere respinto all'ingresso da un cortese ma deciso portiere (i polmoni). Se poi la decompressione è stata inadeguata, la gran quantità di bolle presenti potrebbe congestionare i polmoni far alimentare la pressione in atrio destro e spingerne una certa quantità nel circolo arterioso. L'inversione del gradiente pressorio, per un transitorio alimento della pressione venosa, si potrebbe verificare anche durante una manovra di compensazione forzata come il Valsalva, della quale sono noti gli effetti del piccolo circolo. Il Valsalva alimenta la pressione nella parte destra del cuore e può incrementare uno shunt in caso di PFO o di altro difetto settale. Inoltre, anche rapidi cambi di posizione o di orientamento, sollecitazioni improvvise, stress termici, tosse, vomito, mute o cinghiaggi troppo stretti potrebbero dare origine a transitori aumenti di pressione. Infine, qualche cenno sui possibili effetti indotti dalla posizione di Trendelemburg, ormai peraltro poco usata, nel caso la vittima dell'incidente sia portatore di PFO. È stato visto che gli effetti sullo shunt non sono consistenti, poichè l'innalzamento delle gambe fa aumentare la pressione simultaneamente in ambedue i compartimenti sia destro che sinistro.

Il PFO è realmente un fattore di rischio?
Nel già citato studio di Moon, il 61% dei subacquei colpiti da forme gravi di Mdd (malattia da decompressione) presentava un PFO. Successivamente Wilmhurst trovò che molti individui con sintomatologia da Mdd dopo immersioni nel rispetto delle tabelle evidenziavano shunts destro-sinistri. Venne attribuita un'incidenza di PFO del 66% in coloro che presentavano sintomi precoci di Mdd (entro 30 minuti dall'immersione), a fronte di un dato del 17% tra chi aveva manifestato più tardivamente i segni dell'incidente da decompressione. Il tempo che intercorre tra l'emersione e l'inizio dei sintomi è tanto più breve quanto più rilevante e immediato è l'interessamento del circolo arterioso. Il Divers Alert Network (Dan) definisce come immeritati quegli incidenti non giustificati da chiari errori di risalita o di decompressione. Uno studio specifico compiuto da tale organizzazione considerava la possibilità che tali incidenti venissero favoriti dalla presenza di un PFO. I dati non ancora definitvi evidenziano una significativa, maggiore incidenza del PFO nelle patologie da decompressione di tipo celebrale: la percentuale è del 62% in chi ha subito un incidente da decompressione, del 88% nei casi con ripercussioni cerebrali e del 40% se presenti sintomi neurologici periferici. In un'articolo di Moon diffuso recentemente nella traduzione italiana, viene rilevato come circa il 50%) dei soggetti sofferenti di gravi forme neurologiche di Mdd presenti una pervietà del forame orale, attribuendo loro lma probalità 5 volte maggiore di venir colpiti da forme severe di Mdd. La predisposizione rigllarderebbe anche le fonne cardiorespiratorie e cutanee di Mdd ma non le localizzazioni articolari. Altri studiosi ritengono invece che il legame tra shunt e Mdd continui a rimanere controverso. I dati a sostegno di questa valutazione considerano, per esempio, che dei 50.000 sub praticanti in Gran Bretagna, circa 15.000 dovrebbero presentare un PFO. Ebbene, ogni anno vengono osservati circa 100 casi di Mdd di tipo neurologico, e cioè indica che il fatto di avere lo shunt non necessariamente deve portare a Mdd. Uno shunt potrebbe si incrementare il rischio di incidente con sintomi neurologici, ma tale rischio rimane comunque molto basso in tennini di popolazione.


Terapia medica profilattica contro l'embolia paradossa in presenza di PFO
La presenza di un PFO o di un aneurisma del setto interatriale non necessita di una profilassi farmacologica nei soggetti che non hanno sofferto in precedenza di episodi di ischemia cerebrale. Al contrario, ai pazienti con PFO che hanno già avuto un ictus cerebrale o un TIA e in cui non è stata evidenziata nessun altra causa responsabile dell'evento ischemico cerebrale (forma detta "criptogenetica") viene consigliata una terapia profilattica (preventiva) per diminuire la percentuale annua di recidive tromboemboliche. I pazienti vengono generalmente trattati con anticoagulanti orali (Coumadin, Sintrom) o antiaggreganti piastrinici (aspirina, ticlopidina o clopidogrel, ecc). A tutt'oggi, comunque, non c'è un consenso su quale trattamento sia il più efficace (gli anticoagulanti orali piuttosto che gli antiaggreganti piastrinici), o per quanto tempo la terapia medica debba essere protratta dopo che è comparso un evento ischemico cerebrale. Nello studio di Losanna, ad esempio, non sono state rilevate differenze nella riduzione del rischio di recidive di ictus o TIA tra i differenti tipi di terapia profilattica anticoagulante o antiaggregante assunta18.


Chiusura non chirurgica (per via percutanea) dei PFO
La chiusura non chirurgica dei PFO è diventata possibile con l'avvento dei sistemi di chiusura transcatetere, inizialmente sviluppati per la chiusura percutanea dei difetti interatriali (DIA). LA prima chiusura per via percutanea di un DIA con un doppio-ombrellino di Dacron è stata eseguita nel 1974 20, 21. Da allora, sono stati introdotti numerosi nuovi sistemi di chiusura percutanea che sono stati utilizzati con successo in ambito clinico (cioè impiantati in esseri umani). Tra i sistemi di chiusura utilizzati in ambito clinico ricordiamo il sistema a bottone Sideris, il sistema Sideris auto-centrante, il sistema Angel Wings e il sistema Cardioseal.

Il principale svantaggio dei primi sistemi di chiusura percutanea dei PFO appena citati consiste nel fatto che alcuni di essi sono tecnicamente difficili da impiantare, oppure sono a rilascio incontrollato, o non sono recuperabili a causa della loro forma e contruzione. Uno degli ultimi sistemi sviluppati (denominato "AMPLATZER PFO Occluder") ha risolto quasi tutti questi svantaggi: è facile da impiantare con un rilascio controllato ed è facilmente recuperabile. E' perciò diventato, nei centri specializzati in questo tipo di interventi, uno dei sistemi più utilizzati in alternativa alla terapia anticoagulante (non esente da effetti indesiderati come emorragie, ematomi, necrosi o gangrena cutanea, o interazione con altri farmaci) o a quella chirurgica (sicuramente più traumatica) nei pazienti con PFO ed episodi di embolia paradossa associata ad ischemia cerebrale.

martedì 27 luglio 2010

Ictus - Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

È detto ictus, dal latino colpo, un evento vascolare cerebrale patologico, con conseguente perturbazione acuta della funzionalità encefalica, focale o generalizzata. Viene chiamato anche apoplessia o più appropriatamente attacco apoplettico o colpo apoplettico.
Rientra nelle sindromi vascolari acute. L'attacco ischemico transitorio (TIA) è un ictus ischemico definito dalla regressione completa della sintomatologia in meno di 24h (ma solo il 5% dei casi evolve in più di 12 h).
I termini aulici utilizzati per definire questa patologia rispecchiano la storia della medicina, attraverso le lingue che hanno dominato le scienze nel corso dei secoli, poiché si passa dal greco apoplessi, al latino ictus, all'inglese stroke, che significano tutti allo stesso modo "colpo". Un termine più preciso è accidente cerebrovascolare.

Classificazione internazionale standardizzata
L'accidente cerebrovascolare è causato nell'80% dei casi da un'ischemia (ictus ischemico), mentre nel restante 20% dei casi da un'emorragia (ictus emorragico) intracerebrale-intraventricolare (15%) o meningea (5%).
Ictus ICD 9 ICD10
emorragico 431 I61
ischemico 433, 434 I63
mal definito/non specificato 436 I64
TIA 435 G45


Definizioni
Secondo la definizione dell’OMS l’ictus è l'improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit focale e/o globale (coma) delle funzioni cerebrali, di durata superiore alle 24 ore o ad esito infausto, non attribuibile ad altra causa apparente se non a vasculopatia cerebrale. L'ictus è una emergenza medica e deve essere prontamente diagnosticato e trattato in un ospedale per l’elevato rischio di disabilità e di morte che esso comporta.
La definizione di ictus comprende, sulla base dei dati morfologici, l'ictus ischemico, più frequente, l'ictus emorragico, nel 15% dei casi e alcuni casi di emorragia meningea. L'errore nel diagnosticare l'ictus non supera il 5% dei casi, ed è raro anche se il medico non è uno specialista neurologo.


Tipo di ICTUS
Ictus ischemico
È una condizione caratterizzata dall’occlusione di un vaso (ischemia) a causa di una trombosi (25%) o di un’embolia (70%)
o, meno frequentemente, da un’improvvisa e grave riduzione della pressione di perfusione del circolo ematico.
• Ictus emorragico (intracerebrale o intraventricolare)
È una condizione determinata dalla presenza di un’emorragia intracerebrale non traumatica.
• Attacco ischemico transitorio (TIA)
Il TIA si differenzia dall’ictus per la durata che nel TIA è inferiore alle 24 ore (di solito pochi minuti).
Nome a seconda della zona
L'attacco d'ictus a seconda di dove si verifica lungo il poligono di Willis prende nomi diversi:
• Infarto della circolazione posteriore o Poci quando si verifica sulle arterie vertebrali e arterie basilari
• Infarto lacunare o Laci quando si verifica su un'unica arteria perforante e profonda, interessando il braccio posteriore della capsula interna del ponte di Varolio
• Infarto della circolazione anteriore parziale o Paci quando si verifica sull'arterie cerebrale media, dopo la sua suddivisione
• Infarto della circolazione totale anteriore o Taci quando si verifica sull'arterie cerebrale media, prima della sua suddivisione


Epidemiologia
Ogni anno si verificano in Italia (dati sulla popolazione del 2001) circa 196.000 ictus, di cui circa il 20% è costituito da recidive (39.000). L’ictus è la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie, causando il 10%-12% di tutti i decessi per anno, rappresenta la principale causa d’invalidità e la seconda causa di demenza. L’incidenza dell’ictus aumenta progressivamente con l’età raggiungendo il valore massimo negli ultra ottantacinquenni. Il 75% degli ictus, quindi, colpisce i soggetti di oltre 65 anni. Il tasso di prevalenza di ictus nella popolazione anziana (età 65-84 anni) italiana è pari al 6,5%, ed è leggermente più alto negli uomini (7,4%) rispetto alle donne (5,9%). Si calcola che l’evoluzione demografica, caratterizzata da un sensibile invecchiamento, porterà in Italia - se l’incidenza dovesse rimanere costante - ad un aumento dei casi di ictus nel prossimo futuro. L’ictus colpisce, sia pure in misura minore, anche persone giovani e si stima che ogni anno il numero di persone in età produttiva (<65 anni) colpite da ictus sia intorno a 27.000. L’ictus ischemico rappresenta la forma più frequente di ictus (80% circa), mentre le emorragie intraparenchimali riguardano il 15%-20% e le emorragie subaracnoidee il 3% circa. L’ictus ischemico colpisce soggetti di età media superiore a 70 anni, più spesso uomini che donne; quello emorragico intraparenchimale colpisce soggetti leggermente meno anziani, sempre con lieve prevalenza per il sesso maschile; l’emorragia subaracnoidea colpisce più spesso soggetti di sesso femminile, di età media sui 50 anni circa. La mortalità acuta (a 30 giorni) dopo ictus è pari a circa il 20% mentre quella ad 1 anno è pari al 30% circa; le emorragie (parenchimali e sub-aracnoidee) hanno tassi di mortalità precoce più alti (30% e 40% circa dopo la prima settimana; 50% e 45% ad 1 mese). Ad 1 anno dall’evento acuto, un terzo circa dei soggetti sopravvissuti ad un ictus indipendentemente dal fatto che sia ischemico o emorragico presenta un grado di disabilità elevato, tanto da poterli definire totalmente dipendenti.


Cause di ictus
Ictus ischemico
Si distinguono diversi tipi di ictus ischemico:
• da patologia delle arterie di maggiore calibro (arterie carotidi, arterie vertebrali o arteria basilare), responsabili di infarti che colpiscono la corteccia e le strutture sottocorticali;
• da patologie dei vasi di piccolo calibro (arterie perforanti) che causano infarti sottocorticali o lacune;
• da patologie cardiache (cardioembolico), causati da emboli a partenza cardiaca;
• infarto cerebrale d'altra origine (dissezione, poliglobulia, ipoglicemia);
• infarto cerebrale d'origine sconosciuta.


Le cause più comuni di ictus ischemico sono:
• vasculopatia aterosclerotica che interessa le arterie di maggior calibro, comunemente le arterie carotidi, le vertebrali e le arterie che originano dal circolo del Willis, all’interno delle quali si forma un trombo.
• occlusione delle piccole arterie (ictus lacunare), causata da lipoialinosi (strati lipidici che crescono nelle piccole arterie per effetto dell’ipertensione, del diabete o dell’età) e degenerazione fibrinoide o dall’estensione di microateromi dalle arterie di maggior calibro a quelle perforanti.
• cardioembolia o embolia transcardiaca:


o Condizioni associate con rischio elevato di ictus cardioembolico: fibrillazione atriale (non isolata), protesi valvolare meccanica, stenosi mitralica con fibrillazione atriale, trombo in atrio e/o auricola sinistri, sick sinus syndrome, infarto miocardico acuto recente (<4 settimane), trombo ventricolare sinistro, mixoma atriale, endocardite infettiva, cardiomiopatia dilatativa, acinesia di parete del ventricolo sinistro.
o Condizioni associate con basso rischio di ictus iniziale o ricorrente o non dimostrate con sicurezza come sorgenti di cardioembolismo: prolasso della valvola mitralica, calcificazione dell’anulus mitralico, stenosi mitralica senza fibrillazione atriale, ecocontrasto spontaneo in atrio sinistro, FORAME OVALE PERVIO, aneurisma del setto interatriale, stenosi aortica calcifica, flutter atriale, fibrillazione atriale isolata (lone), protesi valvolare biologica, endocardite trombotica non batterica, scompenso cardiaco congestizio, ipocinesia segmentaria del ventricolo sinistro, infarto del miocardio (>4 settimane, <6 mesi).


Le cause meno frequenti di ictus ischemico sono:
• disordine ematologico/altre cause specificabili
• ictus emicranico
• contraccettivi orali od estrogeni
• farmaci (non estro-progestinici)
• Vasculopatie infiammatorie primarie (arterite a cellule giganti, arterite di Takayasu, Lupus eritematoso sistemico, sindrome di Sneddon, vasculiti necrotizzanti sistemiche, poliarterite nodosa, sindrome di Churg-Strauss, granulomatosi di Wegener, artrite reumatoide, sindrome di Sjögren, malattia di Behçet, sclerodermia, sarcoidosi, arterite isolata del sistema nervoso centrale, malattia di Bürger)
• anomalie congenite (displasia fibromuscolare, inginocchiamenti della carotide, dolicoectasia della basilare, sindrome di Ehlers-Danlos, pseudoxantoma elastico, sindrome di Marfan, malformazioni arterovenose)
• vasculopatie traumatiche (dissecazioni)
La trombosi dei seni venosi può essere causa di infarti cerebrali venosi. In questi casi la presentazione clinica non è caratteristica e può simulare quella di altre patologie, fra cui l’ictus arterioso.


Ictus emorragico
L’emorragia cerebrale primaria rappresenta l’80% circa di tutte le emorragie cerebrali ed è causata più frequentemente dall’ipertensione arteriosa. Un terzo circa dei sanguinamenti cerebrali nelle persone anziane è causato invece dall’angiopatia amiloide, caratterizzata da emorragie cerebrali a carattere ricorrente e con localizzazione lobare.


Emorragia meningea
Nel 90% dei casi si documenta un'emorragia subaracnoidea. Può essere dovuta a rottura aneurismi, più frequentemente (85% dei casi di emorragia meningea) o, nel 10%, essere idiopatica, caratteristicamente a localizzazione perimesencefalica, e nel restante 5% di altre cause rare, per esempio dissezione arteriosa, malformazioni artero-venose (MAV), fistole artero-venose durali.
Fattori di rischio e prevenzione primaria
Gli studi epidemiologici hanno individuato molteplici fattori che aumentano il rischio di ictus. Alcuni di questi fattori (principalmente l'età), non possono essere modificati, ma costituiscono tuttavia importanti indicatori per definire le classi di rischio. Altri fattori possono essere modificati con misure non farmacologiche o farmacologiche. Il loro riconoscimento costituisce la base della prevenzione sia primaria sia secondaria dell’ictus. I fattori di rischio modificabili ben documentati sono:
• ipertensione arteriosa;
• alcune cardiopatie (in particolare, fibrillazione atriale);
• diabete mellito;
• iperomocisteinemia;
• ipertrofia ventricolare sinistra;
• stenosi carotidea;
• fumo di sigaretta;
• eccessivo consumo di alcol;
• ridotta attività fisica.
Sono stati descritti altri fattori che probabilmente aumentano il rischio di ictus ma che al momento non appaiono completamente documentati come fattori di rischio. Fra questi:
• dislipidemia;
• alcune cardiopatie (forame ovale pervio, aneurisma settale);
• placche dell’arco aortico;
• uso di contraccettivi orali;
• terapia ormonale sostitutiva;
• sindrome metabolica ed obesità;
• emicrania;
• anticorpi antifosfolipidi;
• fattori dell’emostasi;
• infezioni;
• uso di droghe;
• inquinamento atmosferico.


La prevenzione primaria per tutti, ma specialmente per le persone a rischio, si basa su una opportuna informazione sull’ictus e su una educazione a stili di vita adeguati. È stato infatti dimostrato che le modifiche degli stili di vita possono produrre una diminuzione dell’incidenza e della mortalità dell’ictus.
Modifiche degli stili di vita che si associano ad una riduzione del rischio di ictus:
• Smettere di fumare - La cessazione del fumo di sigaretta riduce il rischio di ictus, ed è pertanto indicata nei soggetti di qualsiasi età e per i fumatori sia moderati che forti.
• Svolgere una regolare attività fisica. L'attività fisica graduale, di lieve-moderata intensità e di tipo aerobico (passeggiata a passo spedito alla velocità di un chilometro in 10-12 minuti), è indicata nella maggior parte dei giorni della settimana, preferibilmente ogni giorno.
• Mantenere un peso corporeo salutare. L’obiettivo può essere raggiunto aumentando gradualmente il livello di attività fisica, controllando l’apporto di grassi e dolciumi, aumentando il consumo di frutta e verdura.
• Ridurre l’apporto di sale nella dieta a non oltre i 6 grammi di sale (2,4 g di sodio) al giorno. L’obiettivo può essere raggiunto evitando cibi ad elevato contenuto di sale, limitandone l’uso nella preparazione degli alimenti e non aggiungendo sale a tavola.
• Ridurre il consumo di grassi e condimenti di origine animale, sostituendoli con quelli di origine vegetale (in particolare olio extravergine di oliva) e utilizzando i condimenti preferibilmente a crudo.
• Mangiare pesce 2-4 volte la settimana (complessivamente almeno 400 g), quale fonte acidi grassi poliinsaturi della serie omega-3, preferibilmente pesce azzurro, salmone, pesce spada, tonno fresco, sgombro, halibut, trota.
• Consumare 3 porzioni di verdura e 2 porzioni di frutta al giorno, e con regolarità cereali integrali e legumi quali fonti di energia, proteine di origine vegetale, fibra alimentare, vitamine, folati e minerali (potassio, magnesio e calcio). (1 porzione di verdura = 250 g se cotta o 50 g se cruda; 1 porzione di frutta = 150 g)
• Consumare regolarmente latte e alimenti derivati, scegliendo prodotti con basso contenuto lipidico. Per i consumatori abituali di bevande alcoliche limitare l’assunzione di alcol a non più di due bicchieri di vino al giorno (o quantità di alcol equivalenti) nei maschi e a un bicchiere nelle donne non in gravidanza, preferibilmente durante i pasti principali, in assenza di controindicazioni metaboliche.


I trattamenti medici che possono ridurre il rischio di ictus sono i seguenti:
• Nel paziente iperteso: il trattamento dell’ipertensione arteriosa sia sistolica che diastolica riduce il rischio di ictus indipendentemente dall’età del soggetto e dal grado di ipertensione, ed è pertanto indicato in tutti gli ipertesi. L’obiettivo suggerito dalle linee guida è una pressione <130 e <80 mm Hg nei diabetici, e almeno <140 e <90 mm Hg - o decisamente più bassi se tollerati - in tutti i soggetti ipertesi.
• Nel paziente con fibrillazione atriale associata a valvulopatia è indicata la terapia anticoagulante.
• Nel paziente con fibrillazione atriale non valvolare di età superiore a 75 anni e con fattori aggiuntivi di rischio tromboembolico (diabete mellito, ipertensione arteriosa, scompenso cardiaco, dilatazione atriale sinistra, disfunzione sistolica ventricolare sinistra), è indicata la terapia anticoagulante orale .
• In alternativa alla terapia anticoagulante si utilizza l’aspirina che risulta efficace, sia pure in misura inferiore, soprattutto nei seguenti casi: età superiore a 65 anni, se controindicata la terapia anticoagulante orale; età superiore a 75 anni se prevalente il rischio emorragico su quello trombo-embolico; nei casi in cui sia prevedibile una scarsa compliance o vi siano difficoltà di accesso a un monitoraggio affidabile.
• Nel paziente con protesi valvolari cardiache meccaniche è indicata la terapia anticoagulante.
• Nel pazienti coronaropatico con colesterolo elevato, per la prevenzione dell’ictus, è indicato il trattamento con le statine.
• Nel pazienti diabetici di età superiore ai 30 anni con un fattore di rischio aggiuntivo, è indicato l’uso dell’aspirina in prevenzione primaria. Il riconoscimento e la terapia del diabete mellito sono in ogni caso indicati per la riduzione del rischio di ictus.


Come ci si accorge di essere colpiti dall’ictus?
Quando si è colpiti da un ictus improvvisamente compaiono varie combinazioni di questi disturbi:
• non riuscire a parlare nel modo corretto (non trovare le parole o non comprendere bene quanto ci viene detto: afasia; pronunciarle in modo sbagliato: disartria),
• perdere la forza in metà corpo (metà faccia, braccio e gamba, dal lato destro o da quello sinistro: emiplegia o emiparesi),
• sentire dei formicolii o perdere la sensibilità in metà corpo (in modo analogo alla forza: emiipoestesia e parestesia),
• non vedere bene in una metà del campo visivo, ossia in quella parte di spazio che si abbraccia con uno sguardo (emianopsia),
• vi possono essere altri sintomi ancora come la maldestrezza, l’assenza di equilibrio e le vertigini (sempre associate ad altri disturbi: una crisi vertiginosa isolata difficilmente è causata da un ictus),
• le emorragie più gravi, soprattutto l’emorragia subaracnoidea, si annunciano con un improvviso mal di testa (cefalea), molto più forte di quello sperimentato in passato, che viene assimilato ad un colpo di pugnale inferto alla nuca.
Cosa succede dopo un ictus?
L’ictus è una malattia grave. Alcuni, meno fortunati perché hanno lesioni più estese o un decorso aggravato da complicanze, non superano la fase acuta della malattia e muoiono durante le prime settimane. Per altri, una volta superata la fase acuta, si assiste ad un miglioramento – fatto che offre motivi di speranza. Quando si verifica un ictus alcune cellule cerebrali vengono lesionate in modo reversibile, altre muoiono. Le cellule che non muoiono possono riprendere a funzionare. Inoltre nelle fasi acute dell’ictus, intorno alle aree lese il cervello si gonfia per effetto dell’edema. Quando l’edema si riduce il funzionamento delle aree sane del cervello riprende regolarmente. Infine altre aree sane del cervello possono sostituire le funzioni di quelle lesionate. Ovviamente le possibilità di recupero variano in relazione all’estensione della lesione e alla particolarità della zona colpita. Gli effetti dell’ictus variano molto nelle diverse persone: alcune sperimentano solo disturbi lievi, che con il tempo divengono quasi trascurabili, altri, invece, portano gravi segni della malattia per mesi o per anni. Complessivamente delle persone che sopravvivono ad un ictus, il 15% viene ricoverato in reparti di lungodegenza; il 35% presenta una grave invalidità e una marcata limitazione nelle attività della vita quotidiana; il 20% necessita di assistenza per la deambulazione; il 70% non riprende la precedente occupazione. Potrebbero capitare anche piccole forme di perdite di memoria temporanee e chi è affetto da questa malattia potrebbe riprendere l'uso della parola e non capire la sua situazione.


Diagnosi di ictus
All’ingresso in ospedale vengono di regola effettuati i seguenti esami: radiografia del torace, elettrocardiogramma, esami ematochimici (esame emocromocitometrico con piastrine, glicemia, elettroliti sierici, creatininemia, azoto ureico , bilirubina, transaminasi, tempo di protrombina, APTT). Le diagnosi di TIA e di ictus sono diagnosi cliniche. Tuttavia una tomografia computerizzata (TC) o una risonanza magnetica (MRI) sono utili per riconoscere altre malattie che possono essere confuse con questa e permettono di documentare la presenza di una lesione, la natura ischemica di questa, la sua sede ed estensione, la congruità con la sintomatologia clinica. La RMN presenta vantaggi rispetto alla TAC nell'identificazione di lesioni di piccole dimensioni e per quelle localizzate in fossa cranica posteriore. Quando si sospetta una stenosi carotidea si effettua uno studio eco-Doppler dei tronchi sovra-aortici soprattutto ai fini della scelta terapeutica in senso chirurgico, eventualmente completando la valutazione con altre tecniche non invasive di neuroimmagine (angio-RMN; angio-TAC). Lo studio eco-Doppler permette inoltre un migliore inquadramento eziopatogenetico.
Principi di terapia
L'ictus è un'urgenza medica che richiede un ricovero immediato in ospedale. Il paziente con ictus va sempre ricoverato perché è solo con gli accertamenti eseguibili in regime di ricovero che si può rapidamente diagnosticare sede, natura ed origine del danno cerebrale, oltre che evidenziare e curare eventuali complicanze cardiache, respiratorie e metaboliche.
La terapia specifica nelle prime ore si basa sulla disponibilità di strutture e di personale dedicati alla cura dell’ictus (stroke unit) e nel caso dell’ictus ischemico, sulla possibilità di sciogliere il coagulo nelle prime tre ore (trombolisi) e di contrastare la formazione di ulteriori trombi attraverso farmaci che prevengono l’aggregazione delle piastrine (antiaggreganti, in primo luogo, l’aspirina).


Unità specializzate
Può esistere negli istituti ospedalieri un reparto dedicato agli accidenti cerebrovascolari, chiamato anche stroke unit. Dall'analisi dei dati di 20 studi selezionati risulta che nelle stroke unit si previene una morte ogni 32 casi trattati, che un paziente in più torna a vivere a casa ogni 16 trattati e che un caso in più ogni 18 recupera l'indipendenza.[senza fonte]
Trombolisi
Gli studi clinici di trombolisi hanno portato ad accumulare dati su un notevole numero di pazienti, così da consentire una valutazione delle possibilità offerte da tale trattamento. Il farmaco (r-tPA: recombinant tissue plasminogen activator) deve essere somministrato per via endovenosa nelle prime tre ore. L'efficacia del trattamento diminuisce progressivamente dopo le 3 ore.I dati infatti indicano che per ogni 1.000 pazienti trattati, 57 di quelli trattati entro 6 ore e 140 di quelli trattati entro 3 ore evitano morte o dipendenza a 3 mesi, malgrado la comparsa di emorragia secondaria sintomatica in 77 pazienti in più (non fatale in 48 casi, fatale in 29 casi) quando trattati entro 6 ore.
La trombolisi va effettuata in centri esperti, dotati di caratteristiche organizzative che consentano di minimizzare l'intervallo di tempo fra arrivo del paziente e inizio del trattamento, e che assicurino una monitorizzazione accurata dello stato neurologico e della pressione arteriosa per le 24 ore successive al trattamento. La selezione dei pazienti candidati alla trombolisi deve essere accurata, secondo criteri di esclusione atti ad ottimizzare il rapporto rischi/benefici del trattamento. Nei centri con provata esperienza di neuroradiologia interventistica, nel caso di occlusione dei tronchi arteriosi maggiori (carotide interna, tronco principale dell’ arteria cerebrale media, arteria basilare) con elevato rischio di morte o gravi esiti funzionali possono essere utilizzate tecniche avanzate con l’uso di farmaci trombolitici per via arteriosa, associate o meno a manovre meccaniche (angioplastica, tromboaspirazioni, recupero del trombo).


Antiaggreganti ed anticoagulanti
L' aspirina (antiaggregante piastrinico) viene prescritta in fase acuta (ad un dosaggio consigliato di 300 mg) in tutti i pazienti ad esclusione di quelli candidati al trattamento trombolitico (nei quali può essere iniziato dopo 24 ore) o con indicazione al trattamento anticoagulante. In alternativa (per i pazienti già in trattamento con aspirina prima dell’ictus e per quelli che hanno controindicazioni all'uso dell'aspirina) si utilizzano ticlopidina, clopidogrel o dipiridamolo.
I pazienti con fibrillazione atriale non valvolare vengono trattati con terapia anticoagulante orale come pure i pazienti con altra eziologia cardioembolica che hanno un elevato rischio di recidiva precoce (valvulopatie con o senza fibrillazione atriale), o fra 2,5 e 3,5 (protesi valvolari meccaniche). Nei casi con patologia aterotrombotica dei vasi arteriosi extracranici che, malgrado adeguata terapia antiaggregante, presentano ripetute recidive, è indicata la terapia anticoagulante orale.


Emorragia cerebrale
In caso di emorragia intracerebrale spontanea non vi è alcuna superiorità in termini di beneficio del trattamento neurochirurgico precoce rispetto al trattamento inizialmente conservativo. Il trattamento chirurgico dell'emorragia cerebrale è tuttavia indicato in alcuni casi (emorragie cerebellari di diametro superiore a 3 cm; emorragie lobari di grandi o medie dimensioni in rapido deterioramento; emorragie intracerebrali associate ad aneurismi o a malformazioni artero-venose se accessibili chirurgicamente). Sono in sperimentazione farmaci che permettono di contrastare l’espansione dell’emorragia. Il trattamento generale coincide con quello dell’ictus ischemico.
Trattamento generale
Nelle prime 48 ore dall'esordio di un ictus vengono sorvegliate le funzioni vitali (ritmo cardiaco e frequenza cardiaca, pressione arteriosa, saturazione dell’ossigeno nel sangue e temperatura) e lo stato neurologico (monitoraggio). Vanno prevenute le infezioni urinarie (evitando, per esempio il catetere vescicale) e polmonari e va posta particolare attenzione allo stato nutrizionale del paziente, tenendo presente che è importante riconoscere la presenza di un disturbo della deglutizione (disfagia). Vanno prevenute anche le trombosi venose profonde in pazienti a rischio elevato. Vanno trattate le eventuali crisi epilettiche e l’edema cerebrale. Di particolare importanza è la mobilizzazione precoce, ossia la possibilità di far muovere il paziente, già nelle prime ore dopo l’ictus. Le esigenze globali del paziente che ha subito un ictus possono essere così sintetizzate:
• minimizzare il rischio di morte del paziente per cause cerebrali, cardiocircolatorie, respiratorie, infettive, metaboliche;
• contenere gli esiti della malattia limitando il danno cerebrale e le sue conseguenze;
• evitare le recidive di danno vascolare dell'encefalo;
• limitare la comorbosità conseguente al danno neurologico, alle condizioni cardiocircolatorie ed all’immobilità;
• favorire il recupero delle abilità compromesse dall'ictus allo scopo di promuovere il reinserimento sociale e di utilizzare le capacità operative residue;
• definire la prognosi del quadro clinico osservato ed i bisogni a questo correlati, al fine di agevolare la riorganizzazione precoce dell'attività del paziente e soddisfare la sua richiesta di assistenza.


Riabilitazione
Il recupero funzionale dell’arto superiore e la rieducazione del controllo posturale e della deambulazione rappresentano obiettivi a breve e medio termine del progetto riabilitativo. Il trattamento dei disturbi del linguaggio (afasia) richiede preliminarmente una dettagliata valutazione da parte di operatori competenti ed il coinvolgimento di un terapista del linguaggio (logopedista) ed è mirato a recuperare la capacità di comunicazione globale, di comunicazione linguistica, di lettura, di scrittura e di calcolo oltre che a promuovere strategie di compenso atte a superare i disordini di comunicazione ed a addestrare i familiari alle modalità più valide di comunicazione.
Dopo la fase acuta, la cura può proseguire in strutture specializzate per la riabilitazione, tenendo conto delle esigenze a lungo termine del soggetto colpito. Le attività assistenziali a fini riabilitativi dopo un ictus hanno caratteristiche distinte a seconda dell’epoca di intervento e richiedono il contributo di operatori diversi, a seconda degli obiettivi consentiti dalle condizioni cliniche, ambientali e delle risorse assistenziali disponibili.
Il progetto riabilitativo dovrebbe essere il prodotto dell’interazione tra il paziente e la sua famiglia ed un team interprofessionale (infermieri, fisiatri, neurologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali, riabilitatori delle funzioni superiori e del linguaggio), coordinato da un esperto nella riabilitazione dell’ictus. Il team si riunisce periodicamente per identificare i problemi attivi, definire gli obiettivi riabilitativi più appropriati, monitorare i progressi e pianificare la dimissione. I dati attualmente disponibili non consentono di documentare una maggiore efficacia di alcune metodiche rieducative rispetto ad altre. Nel contesto di un progetto riabilitativo comprendente tecniche volte a compensare i deficit si prevede talvolta la possibilità di utilizzare presidi, quali ortesi ed ausili. È utile che i familiari del soggetto colpito da ictus vengano informati, in maniera chiara, sulle conseguenze dell’ictus, soprattutto in termini di deterioramento cognitivo, incontinenza sfinterica e disturbi psichici, oltre che sulle strutture locali e nazionali fruibili per l’assistenza al soggetto malato. Gli operatori sociali, al fine di organizzare e supportare le risorse disponibili, ma anche di contenere lo stress dei familiari del soggetto colpito da ictus. Anche i pazienti più anziani possono essere riabilitati: è importante che in questi casi la riabilitazione sia guidata da un processo di valutazione multidimensionale geriatrica. Ogni paziente, ancora disabile a distanza di sei mesi o più da un ictus andrebbe ri-valutato al fine di definire le ulteriori esigenze riabilitative, da realizzare se appropriate.
Circa un terzo dei pazienti colpiti da ictus va incontro a depressione. Questi pazienti lamentano molti segni fisici di depressione (stanchezza, disturbi del sonno, di concentrazione, dell’appetito, etc.). La depressione post-ictus aumenta il rischio di mortalità sia a breve che a lungo termine dopo l’evento ictale, rappresenta un fattore prognostico sfavorevole sullo stato funzionale del paziente sia a breve che a lungo termine, aumenta il rischio di cadute del paziente e ne peggiora la qualità di vita. In questi casi è opportuno iniziare precocemente un trattamento antidepressivo, anche per ridurne l’impatto sfavorevole sull’attività riabilitativa.
La malattia cerebrovascolare comporta un aumento del rischio di decadimento cognitivo e la demenza vascolare rappresenta la seconda più frequente forma di decadimento cognitivo cronico. Circa il 20%-25% dei casi di demenza è infatti dovuto alle malattie cerebrovascolari.


Le associazioni dei pazienti
• ALICE (Associazione per la lotta all'ictus cerebrale) è l'unica associazione di pazienti esistente in Italia. Nelle varie sedi regionali ha pubblicato anche dei quaderni informativi sulle corrette norme di comportamento nella gestione del malato e sulla prevenzione dell’ictus.
http://www.aliceictus.it/
• ALT - Associazione per la Lotta alla Trombosi - Onlus, è un'Associazione privata libera indipendente e senza fini di lucro, che svolge la propria attività su tutto il territorio nazionale operando dall'unica sede milanese dedicata alla prevenzione della trombosi.
http://www.trombosi.org